Nel grande teatro dell’impresa, c’è chi scrive copioni talmente complessi da non andare mai in scena, e chi invece improvvisa sul palcoscenico con l’energia di un attore senza testo. Il primo è il pianificatore paralizzato, parente stretto del procrastinatore, questo personaggio si distingue per la capacità di restare immobile mentre costruisce piani sempre più dettagliati. Il secondo è il caotico impulsivo che al primo stimolo parte in quarta, accende motori e sforna iniziative in ogni direzione, lasciando dietro di sé team confusi e obiettivi fumosi. Due archetipi, due facce della stessa medaglia, che ci parlano di un dilemma centrale in ogni organizzazione: quanto è necessario progettare prima di agire?
La progettazione: una necessità fondamentale
Progettare serve, eccome. Significa definire risorse, obiettivi, processi, priorità e rischi. In altre parole: costruire una mappa per non smarrirsi e soprattutto, significa ridurre il rischio di errori gravi. Non tutti gli errori, ma quelli legati a contesti ordinati, prevedibili, nei quali esperienza e metodo fanno davvero la differenza.
Pensiamo ad una nuova linea produttiva o ad un sito web aziendale: senza una progettazione accurata, il rischio di caos è altissimo. Le risorse si sprecano, gli obiettivi si confondono, le persone si disorientano. Nel B2B manifatturiero, tutto questo è più intuitivo. Qui progettare non è un’opzione, è un imperativo, ogni decisione, ogni modifica a un processo, ogni nuovo macchinario comporta investimenti importanti, con margini d’errore ridottissimi. Sbagliare significa fermare la produzione, generare scarti, compromettere la qualità o, nei casi peggiori, mettere a rischio la sopravvivenza stessa dell’azienda.
Quando invece ci spostiamo nel mondo dei servizi, la questione si complica. Il prodotto è meno tangibile, spesso è un’esperienza, una relazione, un processo collaborativo e progettare richiede un salto mentale: non si tratta più di disegnare un ingranaggio, ma di anticipare comportamenti, attese, bisogni mutevoli. La tentazione di saltare la fase progettuale perché “si può correggere in corsa” è forte e pericolosa. Una consulenza mal impostata, un sistema di prenotazione inefficiente, una formazione non allineata alle esigenze del cliente generano frustrazione e sprechi.
E poi c’è il marketing, il terreno dove più spesso la progettazione viene percepita come un lusso superfluo. Dove si confonde velocità con efficacia, dove la pressione al “fare subito”, lanciare una campagna, rifare il sito, aprire un nuovo canale social, prende il sopravvento sulla riflessione. Ma progettare nel marketing significa partire da un posizionamento chiaro, da obiettivi definiti e da un ascolto reale del mercato.
Significa costruire una strategia coerente, scegliere i touchpoint più efficaci, definire contenuti e messaggi che abbiano senso per chi ascolta.
Senza questo, il marketing si riduce ad una sfilza di iniziative scollegate che consumano risorse senza generare valore. Si rincorre il trend, ma si perde la direzione.
La progettazione ha senso solo se parte da uno scopo. Fare un sito web, per esempio, non è mai un fine è un mezzo per qualcosa: vendere, comunicare, generare lead, migliorare la percezione del brand, integrare un gestionale. Obiettivi diversi producono siti diversi. Progettare senza domandarsi “perché” equivale a comprare un SUV per parcheggiarlo sotto casa e usarlo solo per andare al bar.
E questo perché, attenzione, non è solo dell’azienda cliente, ma riguarda anche i suoi utenti finali. Chi utilizzerà quel sito? Quel gestionale? Quella strategia? Ascoltare gli utenti è parte della progettazione, non un lusso opzionale. Senza questo ascolto, si rischia di progettare soluzioni perfette sulla carta, che poi la realtà smentisce.
La vendetta del viandante
Nella progettazione degli spazi pubblici esiste un concetto tanto poetico quanto crudele: la vendetta del viandante. Si tratta della traccia lasciata sul prato quando le persone, ignorando i vialetti progettati, scelgono di tagliare dritto. Un gesto semplice, ma carico di significato. Perché il viandante non segue il percorso stabilito? Perché quel percorso, pur perfettamente razionale sulla carta, non risponde al suo modo di muoversi, di pensare, di vivere lo spazio e allora si prende la sua rivincita. Passa e ripassa, lascia il segno, costringendo il progettista a rivedere le proprie scelte.
Questa metafora è straordinariamente efficace quando la applichiamo al mondo digitale. I progetti digitali sono i nuovi giardini pubblici: pieni di percorsi, strutture, funzioni, pensati per guidare l’utente verso un obiettivo ma troppo spesso dimenticano l’elemento centrale: l’essere umano. Succede con i gestionali aziendali che nessuno usa, con le app bellissime ma inutilizzabili, con i siti web costruiti intorno all’azienda anziché all’utente o con le campagne marketing fondate su presupposti interni, che ignorano completamente il vissuto del cliente.
In ognuno di questi casi, l’utente (come il viandante) si vendica. Non clicca, non converte, non utilizza oppure aggira i flussi, forza i sistemi, cerca scorciatoie e se non le trova, se il percorso è troppo rigido, troppo lontano dal suo modo di essere, semplicemente se ne va.
La vendetta del viandante digitale non è un atto di sabotaggio, è un messaggio che sta dicendo al progettista: “non mi hai ascoltato”.
Questa dinamica ci rivela qualcosa di più profondo: la progettazione, nei sistemi complessi, ha limiti strutturali. Per quanto raffinata, documentata, dettagliata, non potrà mai abbracciare completamente la realtà che pretende di governare. E questo non perché siamo cattivi progettisti, ma perché i sistemi complessi non si lasciano progettare del tutto, sono ambienti mutevoli, relazionali, dove ogni variabile interagisce con le altre in modo non lineare.
In questa prospettiva, la progettazione non può più essere una fase chiusa ma deve diventare un processo adattivo e flessibile. Nel concreto, progettare in modo adattivo vuol dire integrare cicli di feedback continui, osservare il comportamento delle persone, accettare che ogni progetto dovrà essere aggiustato in corsa. Vuol dire costruire pensando sin dall’inizio alla possibilità di cambiare, ma soprattutto, riconoscere che non c’è un momento giusto in cui tutto sarà perfetto per partire e che agire, quando fatto con intelligenza, è parte stessa del progettare.
In questo modo, la progettazione non perde rigore: guadagna umanità e precisione reale. Si ancora a ciò che accade, non solo a ciò che immaginiamo, e riesce finalmente a rispondere alla complessità non con una mappa rigida, ma con una direzione chiara e una capacità costante di ricalibrare il cammino. Come chi attraversa un prato senza seguire i vecchi sentieri, ma lasciandosi guidare dai segni che la realtà disegna sotto i propri piedi.
Il coraggio di partire prima di essere pronti
Trovare il giusto equilibrio tra progettazione e azione è difficile, ma non impossibile. Richiede una nuova postura mentale, una diversa grammatica decisionale. Un’impresa non vive in un mondo statico ma in un ambiente dinamico, fatto di persone, relazioni, cambiamenti continui, margini di incertezza. Pretendere di controllare tutto prima di iniziare equivale, spesso, a non partire mai.
La vera sfida è capire quando è abbastanza.
Non troppo poco da rischiare il caos, ma nemmeno troppo da cristallizzarsi. In questo modo, la progettazione diventa evolutiva, capace di apprendere dal campo, di migliorare mentre si cammina, un sistema in ascolto che cambia, si adatta e cresce.
È qui che entra in gioco l’ascolto come competenza strategica, sia prima con i clienti o il team del progetto sia dopo, quando il progetto ha preso forma e mostra dove ha funzionato e dove no. In questo ciclo continuo di progettazione, azione, apprendimento e nuova progettazione si costruisce la vera capacità di evolvere e di correggere la rotta in tempo.
Perché fare impresa oggi, in un mondo che cambia in continuazione, è come camminare su una mappa che si disegna passo dopo passo. Non vince chi ha il progetto più dettagliato, vince chi sa leggere i segnali, chi sa cambiare idea, chi sa agire prima di avere tutte le risposte. Vince, in fondo, chi ha il coraggio di continuare a giocare, con la consapevolezza che il percorso migliore non è quello che ci eravamo immaginati, ma quello che abbiamo saputo costruire mentre lo percorrevamo.